Non troverai altro luogo (2017) di Marilia Mazzeo

La copertina del romanzo, e, a fianco, un particolare del dipinto di Edwar Hopper (Compartment C, Car 293) a cui l’immagine di copertina è ispirata. Si noti già da ora l’aggiunta di un violino, elemento cruciale, a fianco della figura femminile protagonista dell’immagine di copertina.

Autore: Marilia Mazzeo

Anno pubblicazione: 2017

Casa editrice: L’iguana editrice

Città: San Bonifacio, Verona

N. pagine: 396

La scrittrice Marilia Mazzeo

Non troverai altro luogo è il romanzo edito nel 2017 di Marilia Mazzeo (Ravenna, 1969), da trent’anni veneziana, nota già per altri suoi precedenti lavori quali Parigi di periferia (1998), La ballata degli invisibili (1999) e la raccolta Acqua alta (1997). Ma significativi per comprendere appieno quest’autrice sono pure i vari racconti pubblicati singolarmente nel corso del tempo.

Il romanzo – che profuma di giallo senza per questo appartenere propriamente a tale genere letterario – meravigliosamente scritto, e che non mancherà di incidersi nell’animo del lettore, vede come nucleo essenziale il doloroso rapporto tra una madre ed un figlio. In senso più ampio, possiamo dire che nel corso della vicenda si assiste ad una lunga e caparbia ricerca da parte di una musicista affermata, Elena Spinardi, del figlio misteriosamente scomparso, Carlo. Una scomparsa che getta il lettore nello smarrimento, nella ricerca di un senso, di una motivazione.

Per una certa parte del racconto, si vengono a creare tre piani di realtà: quello di Carlo (la cui logica d’azione è in ombra, e va pertanto illuminata); quello dei famigliari di Carlo – non solo Elena, appunto, ma anche Manlio, padre di Carlo, e Marta, sorella di Carlo – all’oscuro sulle cause di tale sparizione; e quello di noi lettori (il piano della ‘logica’ che impazientemente vorrebbe ‘illuminare’ i fatti, o che le venissero fin da subito illuminati i fatti).

Fino ad un certo tratto, il piano dei famigliari di Carlo viene perfettamente a coincidere col piano di noi lettori: da entrambe le prospettive ci si interroga sui motivi della sparizione.

Ma poi, quando la Mazzeo opera sulla figura di Elena un lento ‘processo di individuazione’, la donna inizia ad emergere come protagonista rispetto agli altri due famigliari. E proprio quando Elena comincia a voler sondare il terreno e a interrogarsi in modo più profondo sull’accaduto, il piano di Elena inizia a scindersi sia da quello degli altri famigliari, sia da quello del lettore.

Si vengono così a produrre quattro piani, essenzialmente (piani che permarranno fino alla fine): quello di Carlo, quello di Elena, quello di tutti gli altri personaggi (ciascuno con una propria visione delle cose), e quello del lettore, che non mancherà di identificarsi in almeno uno (ma probabilmente anche più di uno) dei personaggi della storia.

Una ricerca, quella per Carlo, che si avvia ‘a scoppio ritardato’, in quanto la non reperibilità di costui non viene immediatamente percepita come ‘sparizione’. Non si avverte che molto tardi la necessità di ricercarlo. Non ci si pongono domande, non si esplora, non si indaga come si dovrebbe fin da subito. O prima o poi il lettore si rende ben conto che agli inizi c’era stata una forma di strana resistenza, una sorta di negazione freudiana a voler ammettere il Reale.

Quando poi l’urgenza di Elena prende finalmente il sopravvento, e si traduce in un viaggio, si profila davanti al lettore una sorta di paziente ‘ricostruzione di un mosaico’ – non una semplicisitica investigazione da detective come si potrebbe pensare – rappresentante in definitiva l’Imago del rapporto effettivo tra lei e Carlo. Un’Imago costituita dai ritratti di entrambi, inizialmente sfocati, poi sempre più messi a fuoco.

Risulterà man mano evidente come si sia trattato, tra madre e figlio, di un ‘non dialogo’.

Scruta, la donna, tale Imago, tassello dopo tassello – i tasselli le vengono forniti in buona parte dalle persone che incontra o casualmente o intenzionalmente durante il viaggio – con una sofferenza (se non proprio una ripugnanza) crescente, via via che la figura si compone. E il suo sforzo di negare la Realtà appare sempre più palpabile al lettore.

Elena, col suo osservare in modo via via sempre più sincero, come davanti ad uno specchio, la propria Imago e quella di Carlo, mi ha ricordato la commovente Chambre claire (1980) di Roland Barthes (vero e proprio omaggio da parte del noto intellettuale francese alla propria madre defunta). Saggio mirabile sulla fotografia  nel quale Barthes afferma: “…solo nell’appartamento nel quale [mia madre] era morta da poco, io andavo guardando alla luce della lampada, una per una, quelle foto di mia madre, risalendo a poco a poco il tempo con lei, cercando la verità del volto che avevo amato. E finalmente la scoprii”. Barthes opera un sottile distinguo fra quelle fotografie che suscitavano solo l’ identità della madre, e l’unica invece capace di suscitarne la verità, ossia quella che lui menziona come “fotografia del giardino d’inverno”.

Anche nel romanzo della Mazzeo si assiste ad un lento ma implacabile avvicinamento alla “Verità” delle due figure, sia materna che del figlio.

Nel caso di Barthes, la “fotografia del giardino d’inverno” appositamente non viene pubblicata all’interno del saggio: “Io non posso mostrare la foto del giardino d’inverno. Essa non esiste che per me. Per voi non sarebbe altro che una foto indifferente, una delle mille manifestazioni del “qualunque”…per voi, in essa non vi sarebbe nessuna ferita”. Il concetto di ferita rimanda in questo saggio al concetto di punctum, quello “scorcio” di una fotografia su cui cadono gli occhi, che, secondo Barthes, ci ‘punge’, ci provoca turbamento, ci ferisce, indipendentemente dalla volontà del fotografo. Il punctum è infatti una creazione involontaria dello Spectator (il fruitore di una foto), mentre osserva una fotografia.

Al contrario, nel romanzo c’è la netta volontà da parte dell’autrice di definire in modo molto plastico e realistico le due figure. Perché di fatto, c’è l’intenzione di ‘far toccare con mano’ al lettore la loro anima, così da evocare delle sensazioni molto vivide, e quindi, ancor più dolorose. Anche per ciò affermavo che i processi d’ identificazione avvengono qui in modo molto naturale.

Elena, figlia di un orchestrale della Scala, si renderà sempre più conto che la sua vita si è troppo incentrata sulla sua attività di violinista, a discapito dell’affetto per la famiglia. Come il padre, serioso e conformista, è stato anaffettivo con lei, così lei è stata una madre distratta e anaffettiva con Carlo e Marta.

Come rispecchiato anche nell’immagine, molto bella e fine, di copertina – ispirata ad un dipinto di Edward Hopper, pittore statunitense amato anche qui in Italia, dal titolo Compartment C, Car 293 – l’autrice ha scelto che anche in occasione della ricerca di suo figlio, Elena porti con sé il suo violino, col quale dimostra pertanto di intrattenere un rapporto simbiotico e fragilmente ‘autistico’.  

Per Elena sembra valere il pensiero di Etty Hillesum, risalente al 29 novembre del 1941, formulato dalla scrittrice olandese sulla scorta di San Paolo: “L’amore e la conoscenza. Non è così che era? A cosa mi serve tutta la conoscenza, se non ho l’amore? Ma non si possono ottenere entrambi? L’uno non esclude l’altro, non è così?”. Dove per “conoscenza” intendo qui “cultura” in senso molto generale, mentre l’amore è quello che certamente Elena avrebbe desiderato ricevere dal padre così anaffettivo. Elena ha riempito se stessa di cultura, ma non di amore. Ma la cultura, ‘inverata’ nel romanzo dalla musica, viene qui presentata nella sua veste più ‘formale’, nella sua dimensione più sterile. La musica non viene vista qui come un’arte seduttiva, e neppure come arte arricchente l’animo. Non è certo la sua versione dionisiaca (per usare un termine nietzschiano) quella che appare nel romanzo; non è folgorazione, né ferita, né punctum (per come appunto lo intende Barthes). La musica, l’arte, il suo violino, erano stati invece per Elena un vero e proprio rifugio privilegiato dove poter sperimentare il Principio di piacere freudiano, e che le aveva permesso di nascondersi dal ‘minaccioso’ Principio di realtà che la vita adulta sempre presenta come Necessità (o come conto da pagare, o prima o poi). Principio di piacere che qua e là Elena ricerca anche durante il viaggio, concedendosi qualche frivola pausa e qualche digressione (che certo sorprenderanno alcuni dei lettori) che le permettono di negare ancora una volta l’inquietudine.

Ad un’ ipotizzabile presenza nel romanzo di una prospettiva in qualche modo deterministica (un padre ha condizionato la vita della figlia, e questa può aver influito sul carattere di Carlo) viene contrapposto un illuminante passaggio dove un personaggio, rivolgendosi ad Elena, parla espressamente della sua personale idea di Destino: “Ogni volta che mi trovo davvero nei guai, mi arriva un aiuto. Io non sono credente, sa? Però sento che ci sono delle forze nell’universo, forze a cui è necessario affidarsi…guidare la propria vita va bene, ma affidandosi alle correnti della fortuna, del destino…come ci si affida a un cavallo: si imbriglia, sì, si comanda, ma anche ci si affida a lui, non è vero?”.

Si arriva al punto in cui i nodi sono venuti al pettine, e il presente accusa impietosamente Elena. Da una parte, il desiderio naturale di essere amata; dall’altro, l’accusa (da parte dei figli) di non aver amato quanto sarebbe stato necessario. E’ evidente come tutto ciò conduca verso un’idea di senso di colpa insopportabile.

L’unico elemento che può colmare le lacune tra Elena e suo figlio e riavvicinarli è una promessa di lavoro a Torino, la città dove vivono lei e Manlio, suo marito. Un posto di lavoro garantito da un amico, Renzo, che si è preso a cuore la vicenda di Carlo. E’ attraverso l’ambizione di vedere realizzato il figlio, che Elena cerca di ‘gratificare-comprare’ Carlo. Una promessa che è una sorta di vessillo, col quale Elena vuole che Carlo torni alle sue origini, cioè al Carlo autentico. Il romanzo dà modo al lettore di interrogarsi su cosa sia realmente autentico in un individuo, visto che i fatti della vita, e lo scorrere del tempo, ci portano comunque ad una continua trasformazione. Al contempo, commuove questa rivendicazione disperata di un’autenticità dell’essere, che la crisi economica è riuscita in molti casi a spazzare via.

Nel momento in cui si è venuta a formare questa idea (tragicamente astratta) nell’animo di Elena, cioè l’illusione di voler/poter rendere giustizia al figlio, la vita di Carlo, lontano da Elena, inizia a deragliare in modo del tutto imprevedibile, dopo una lunga serie di sconfitte sul piano lavorativo. L’ambizione di Elena poggia su qualcosa di estremamente inconsistente, di ‘inattuale’ e di ‘inattuabile’.

Come in molte raffigurazioni del passato appare sullo sfondo un tempio o un edificio o una città, che hanno bisogno di essere riconosciuti per comprendere la loro funzione simbolica all’interno dell’immagine, così nel romanzo della Mazzeo svolge un ruolo certo non casuale un romanzo che Elena porta con sé durante il suo viaggio. Un romanzo che nell’epoca in cui è stato scritto, e anche successivamente, ha impattato fortemente nella coscienza dei lettori: Padri e figli di Turgenev (1862). A mio giudizio l’autrice ha scelto di ‘raffigurare’ all’interno del suo ‘quadro’ quest’opera per due motivi principalmente. Perché in esso si parla di scontro generazionale (il protagonista dell’opera di Turgenev, Bazarov, si oppone in modo dirompente al mondo desueto e stantìo dei suoi genitori); e per il fatto che si parla di nihilismo.

Il conflitto generazionale della vicenda russa è solo una delle molteplici avvenute nel corso della storia – i corsi e ricorsi della storia di vichiana memoria! – e il rapporto tra Elena e Carlo ne incarna un perfetto esempio della modernità, e più nello specifico della nostra attualità: assolutamente impressionante è il ‘realismo’ della Mazzeo, che riesce a cogliere in modo mirabile la complessità di realtà a noi molto note, e a darne una immagine pur tuttavia naturale ed estremamente nitida. 

Il secondo elemento che deve aver interessato l’autrice è appunto il nihilismo, che a mio giudizio si può, se non proprio sovrapporre, in qualche modo allacciare al discorso del Lavoro del Lutto (Trauerarbeit) freudiano. Lutto freudiano contro il quale cerca di contrapporsi l’ambizione (vacua) di Elena.

Nella visione di Freud, la Libido (che può essere intesa in senso lato anche come energia, amore, pulsione di vita), che ha la consuetudine di direzionarsi verso un oggetto (l’oggetto d’amore, l’oggetto del desiderio), a causa di un accidentale evento più o meno traumatico, a causa di un ‘lutto’ (nel senso più generale, come viene inteso dalla psicoanalisi), cessa di venire direzionata verso qualcosa o verso qualcuno. E’ un’energia che non si dissolve (anche se così parrebbe, nei casi di depressione), ma resta ‘in sospeso’, viene trattenuta, in attesa di poter essere di nuovo ‘spesa’ in qualche modo. C’è un bellissimo saggio di Freud, Caducità (del 1915), che esprime in modo mirabile tale concetto. La figura di Carlo, brillante, inizialmente vòlta all’affermazione sociale e professionale, trascolora, passando nella dimensione buia del Lutto.

A simboleggiare in modo essenziale questo ‘trascolorare’ di Carlo, è la contrapposizione (che al lettore non può non suonare come altamente dolorsa) tra l’argomento della sua tesi (su Georg Muche, artista della Bauhaus), scritta ancora nell’iniziale fase di entusiasmo, e l’anonimo e povero casone di mattoni che a distanza di qualche anno egli si trova a ristrutturare, in una località sperduta, vero e proprio alter ego della sua anima alla deriva, appunto afflitta dal Lavoro del lutto. La scrittura della Mazzeo è abile qui nel confondere momentaneamente il lettore, calandolo in un’ atmosfera vagamente straniante. Inizialmente si potrebbe pensare che tale casone altro non sia che un inveramento della genuina Natura. Una perfetta esaltazione della Natura e della semplicità artigianale contrapposte all’artificio spersonalizzante, aberrante della Cultura. No, il casone rappresenta l’ultimo disperato appiglio, in un momento di estrema decadenza e disperazione. E se le parole che Carlo rivolge alla madre sono quelle di un’armonia finalmente raggiunta, quelle di un apparente appagamento, il corpo, il fastidioso tic degli occhi, le somatizzazioni, tradiscono lo stato di un totalizzante disfacimento del personaggio. 

Nella concezione freudiana, lo ricorderà chi ha letto la Traumdeutung (1899-1900), i sogni di navi e di case – simbolici grandi contenitori – alludono al ventre materno. Scrive Barthes nella già citata Camera chiara: “Ora, parlando del corpo materno, Freud dice che non c’è nessun altro luogo di cui si possa dire con altrettanta certezza che ci siamo già stati”. Il casone che nella parte veramente cruciale del romanzo, ossia nella sezione conclusiva, svolge un ruolo di così grande importanza, mi ha in questo senso suggerito una sensazione di regressione, un ritorno ultimo, definitivo (la Pulsione di morte freudiana) da parte di Carlo, nell’Utero. Un utero ‘ideale’, si badi bene, non quello di Elena. L’avversione di Elena per quel luogo confermerebbe di fatto tale interpretazione. Non è un caso se Elena parla espressamente di “tomba”.

La dicotomia, dolorosa, è chiara. Da un lato l’ambizione di Elena, recante come vessillo la promessa di un lavoro stabile, dall’altro lo spegnersi di Carlo. Il quale, attraverso una mirabile frase, fa crollare qualsiasi rimasuglio di certezza presente nella madre: “…siamo diversi. Io, forse, sono un debole…Non puoi saperlo, finché le cose vanno bene…Tu sei una roccia, l’hanno sempre detto tutti. Ma nessuno ti ha mai tolto di mano il tuo violino, la tua orchestra, la tua villetta…la tua cameriera. Che ne sai, allora, di come sei veramente? Sei davvero così forte o semplicemente ti è andata bene? Diventeresti una persona diversa…”. 

E’ Carlo ad aver fatto un vero esame di realtà. E’ Carlo, nella sua discesa agli inferi, ad aver acquisito uno sguardo puro e lucido nei confronti del Reale, molto prima della madre.  

Come avviene tipicamente nelle opere della Mazzeo, anche in Non troverai altro luogo, viene sviscerato un problema sociale attuale, che tocca buona parte della popolazione. La questione analizzata non è un semplice ‘sfondo’, né un semplice ‘contesto’, come già il lettore avrà ben compreso. Direi piuttosto che è la ‘veste’ scelta dall’autrice per giustificare specificatamente in questo romanzo la presenza del Lavoro del lutto. Si tratta appunto del tema della disoccupazione. Tema purtroppo proprio della nostra epoca, che certo non mette d’accordo tutti ma anzi è controverso, ricco di contraddizioni e di sfumature sottili che non tutti sono in grado di cogliere; crea divisioni e radicalizza, in certi casi, conflitti (anche generazionali) o disparità che in un altro contesto non si sarebbero avvertiti in modo così doloroso.

Fra venti o trent’anni, ci chiediamo, anche sollecitati da un romanzo come questo, chissà come verrà giudicata la nostra epoca. Di certo il lavoro della Mazzeo rende giustizia ai numerosi morti suicidi (che sempre troppo poco spesso vengono ricordati) che il problema di questi anni ha mietuto. Ma il fatto è che tale questione viene avvertita solo da chi il lavoro non ce l’ha. Il romanzo della Mazzeo descrive mirabilmente l’incapacità di comprendersi reciprocamente tra generazioni diverse. L’analisi del medesimo Reale è schiettamente diversa, quando a compierla sono generazioni diverse, e questo porta all’impossibilità di sintonizzarsi l’un l’altro, o di empatizzare realmente, al di là delle frasi di circostanza. Molte le persone che Elena nel suo viaggio incontra, come già detto. Molte di loro raccontano la propria testimonianza (diretta o indiretta) sulla crisi economica dell’Italia. Ne esce fuori un’Italia tutto sommato inerme, rassegnata, che racconta delle proprie o altrui sconfitte in modo salottiero, davanti ad un thè. Sì, ne esce fuori un Paese tutto sommato impigrito, arreso, stanco, snaturato, di certo non desideroso di rivoluzioni (come il  Bazarov di Turgenev). L’utopia, sembra dirci la Mazzeo, è morta. Ora possiamo solo calpestare i calcinacci (immaginari) del mondo che ci eravamo immaginati. 

L’autrice, tutto sommato, questo almeno è il mio personale giudizio, non sembra separare in modo manicheo con l’accetta il Bene dal Male, né prendere una posizione univoca in questo scomodo dibattito. E la scelta di rendere sfumato e ambiguo il punto di vista dell’autrice stessa, dà opportunità al lettore di formulare un giudizio abbastanza libero, in base alle proprie esperienze di vita, in merito ad ogni singolo personaggio.

Elena non viene vista in toto come personaggio negativo, ma anzi, quando le prime crepe della sua illusoria e pienamente rigida visione delle cose fanno intravedere alla fin fine una donna fragile – o se si vuole, per dirla crudamente, il suo fallimento – si comprende bene come la sua colpevolezza sussista, ma senza una reale intenzione. Ciò la rende inevitabilmente agli occhi del lettore (o di parte dei lettori) degna di compassione. Al contempo, la gioventù viene vista dall’autrice in modo abbastanza duplice, a prescindere dalla figura di Carlo: in parte viene certamente valorizzata, in parte viene più o meno vagamente biasimata. Il romanzo lascia in definitva la questione (su chi debbano a livello sociale ricadere le colpe della situazione) in buona parte aperta.

Un elemento però abbastanza innegabile è il tema, ricorrente nella scrittrice, della paura per il nuovo. Anche nel racconto della Mazzeo Lo scrigno (vedi www.ilprimoamore.com), lo ricordo ai lettori, c’era una concezione pessimistica e negativa del nuovo, inteso non tanto come Unheimlich (il riferimento è al celeberrimo saggio sul Perturbante di Freud), ma anche e soprattutto come immagine degradata del passato. Così è per la novità del casone, che rappresenta per Elena una realtà sconvolgente. Così è per la figura (abbastanza ambigua, e per nulla secondaria) di Fabrizio, il nuovo socio di Carlo, del tutto antitetica a quella di Elena. 

Tale pessimismo insito nel romanzo (contingente se pensiamo al tema del lavoro; più generale, se si considera il tema della sfiducia nel nuovo), che conduce ad una sezione conclusiva sconvolgente, dove le difficoltà più invalicabili sono la comprensione e il perdono reciproci – è solo un piccolo tassello di un pensiero che sta prendendo sempre più corpo nelle nostre coscienze, e quindi dalla portata molto più vasta, che afferma la sempre più evidente decadenza dell’Occidente.

La prosa della Mazzeo scorre qui in modo straordinariamente ricco e penetrante. Una delle peculiarità che tengo qui a sottolineare è l’espediente – nell’ambito degli incontri che la protagonista fa durante il suo viaggio – di far inserire costantemente da parte dei singoli personaggi, nei loro racconti, degli elementi, dei dettagli, che potrebbero tutti, sul piano teorico, portare ad un’improvvisa svolta, ad un improvviso colpo di scena. E’ il mirabile modo di illuminarli alla coscienza del lettore da parte dell’autrice, a suscitare questa perenne sensazione. In tal senso la lettura viene tenuta costantemente viva da questo procedimento narrativo che contribuisce a mantenere intenso e teso il clima emotivo. Il titolo, Non troverai altro luogo, rimanda, il lettore se ne sarà ben accorto, ad un aspetto fideistico, religioso che evidentemente interessa in qualche modo l’autrice (l’allusione è chiaramente ai Comandamenti del cristianesimo). Un richiamo alla ‘sacralità’ per l’appunto, della famiglia (quella che aspettava tornare Carlo a Torino), intesa come radice imprescindibile. La Mazzeo guarda con estrema nostalgia ad una Famiglia con la effe maiuscola, ma nel corso del romanzo in più punti quella di Elena viene descritta come una famiglia come purtroppo tantissime altre oggi nel nostro Paese. Quello del titolo va inteso come una eco, come un malinconico richiamo (se non proprio come un comandamento), che però non ha la forza sufficiente per fare presa su chi dalla casa si è allontanato. E neppure l’imminente avvicinarsi della Pasqua (altro richiamo alla religione), annunciato quando la storia sta volgendo al termine, non porta a quella risoluzione dei conflitti, non porta a quella “risurrezione” (per l’appunto) di Carlo che in modo sempre più viscerale e disperato la madre ha desiderato, ma ormai troppo tardi. Nulla resta ad Elena che un’amara, devastante accettazione del Reale. Lo sguardo sul figlio – lei che fino ad allora non era stata in grado di guardarlo, di considerarlo, con occhi attenti – si abbassa lentamente, in segno di resa, come un sipario pregno di senso di morte si cala alla fine di un dramma.

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