E da una lacrima…la felicità (2019) di Marco Posata

Autore: Marco Posata

Anna pubblicazione: 2019

Casa editrice: Santelli editore

Città: Cosenza

N. pagine: 223

Posto qui la mia recensione nel giorno in cui il romanzo di Marco Posata esce nelle librerie distribuite da Direct book. Il romanzo è ordinabile anche on line (Amazon, IBS, Libreria universitaria e Feltrinelli).

Il romanzo d’esordio di Marco Posata (Pescara, classe 1991), E da una lacrima…la felicità, potrà forse riecheggiare, seppure alla lontana, ai musicofili e agli appassionati di Wagner in particolare, un’idea di Dramma musicale (Musikdrama) per come il grande genio tedesco l’ha inteso nella sua Tetralogia (Der Ring des Nibelungen). Si ‘respira’ in questo romanzo, in effetti, una concezione quasi mitologica, ‘enfatica’ (in senso buono), dell’Eroe e delle vicende umane, nonché una concezione quasi epica del Tempo. Così pure, le frequenti narrazioni di vicende avvenute nel passato (analessi), e il ricorrere più volte (come è il caso dei Motivi conduttori o Leitmotives in Wagner) di alcuni temi cruciali, sono tutti fattori che contribuiscono a legittimare tale accostamento. Ma non solo: pure la titanica e perenne lotta tra l’interiorità della protagonista, Lora, ed eventi avversi esterni a lei, e il pervasivo ruolo esercitato nella storia dal Destino, fanno volgere il pensiero alle epopee wagneriane.

Tale eco è del resto pure convalidata da certe innegabili assonanze nel romanzo di Marco Posata con la tragedia classica antica (quella di Eschilo, Sofocle, Euripide), il cui odore è certo rintracciabile nei ‘moderni’ drammi della Tetralogia (ma è qui doveroso tralasciare il complesso discorso sulle fonti dei libretti del Ring).

E da una lacrima…la felicità narra di una madre africana, per l’appunto Lora, non più giovane, eppure dotata di una freschezza e genuinità non comuni, nata in un villaggio poverissimo, che in un oramai lontano passato è stata costretta a lasciare in affidamento ad un orfanatrofio il proprio figlio – nato dall’amore infelice con Jamaji, un mendicante del deserto – per evitargli la morte certa.

Impervie sono le peripezie che ella si trova costretta eroicamente ad affrontare, nel momento in cui decide di andare alla ricerca del figlio. Inizia così il lungo e sofferto viaggio di Lora, che la porterà dall’Africa all’Italia, e dall’Italia agli Stati Uniti.

Alla purezza, al candore di stampo vagamente cristiano della protagonista della vicenda, fa da contraltare in modo pervicace il Male. Male che assume via via svariati volti: lo si trova nell’arabo che rapisce Lora rendendola sua prigioniera; lo si trova nel malavitoso Rizzo e nei suoi scagnozzi, e in generale nel mondo dello spaccio di droga e della prostituzione; lo si trova nel popolo dei Dramet e in quello dei Murut (popoli arcaici che regolano la propria vita in base a primitive leggi crudeli); come pure lo si trova, paradossalmente, nel mondo dei volontari dei centri di accoglienza italiani, che, anziché prendersi cura degli immigrati, cedono agli impulsi e approfittano del proprio ruolo per abusare di Lora; lo si trova in tanta gente comune, razzista, che guarda di mal occhio la ‘nera’ Lora, e che, carica di pregiudizi superficiali, la vorrebbe vedere tornare al suo paese d’origine; lo si trova negli eventi atmosferici, più di una volta ostili nel corso della vicenda (esiste del resto un filone leggendario che nasce nella notte dei tempi di credenze folk che attribuiscono agli eventi atmosferici una natura fantasiosa ben diversa da quella concepita dalla scienza); e persino nei mezzi di trasporto, navi e treni che agli occhi ‘primitivi’ di Lora sembrano dei mostri.

Come in un processo alchemico del tutto sui generis, la figura di Lora finisce per contaminarsi di questo ‘male’ esterno ed estraneo a lei, ma non nell’intima sua sostanza. Il suo nucleo rimane puro, fino alla fine. A descrivere la figura della protagonista, potrebbe risultare significativo questo passaggio autobiografico di Etty Hillesum, scrittrice olandese, datato 19 giugno 1942: “Ho soltanto il talento, se così lo possiamo chiamare, di vivere tutto ciò che si può vivere, sentire e sopportare nella vita. I più grandi vizi non mi sono estranei, ma conosco anche la più grande confidenza in Dio [ove il concetto di “Dio” nel caso di Lora va sostituito con quello più generico di “Entità superiore”] e lo spirito di abnegazione e l’amore per l’umanità. E vivo tutto nel corpo e nell’anima, con sangue e oscurità, attraverso tutte le profondità del mio essere”. 

Malgrado siano molte le persone che incontra nel proprio cammino, Lora è fondamentalmente sola. Quasi nessuno comprende fino in fondo la sua tragedia e la sua buona fede. Lei, proprio per via della sua ingenua e fresca visione del mondo, non ha pregiudizi, guarda gli altri con uno sguardo ‘incontaminato’. Ma non viene quasi mai ricambiata della stessa moneta. L’amicizia, la solidarietà, le giungono solo da quelli che nella Bibbia vengono chiamati “gli ultimi”: a incarnare tale ruolo, sono tre ragazze cadute come lei prigioniere nel magazzino di Rizzo.

La storia, penetrante, scritta dall’autore con una profonda e sapiente compassione per l’animo umano, non mancherà di toccare le intime corde di ogni lettore.

La vicenda può certamente essere intesa come osservata non solo con gli occhi del narratore, ma anche con quelli della protagonista, Lora. Protagonista che parte da un background ‘primitivo’, suggestivamente arcaico, ma che al contempo dimostra di possedere una sensibilità ed una umanità evolute e nobilissime, che travalicano i confini della sua cultura tribale.  

Due sono i concetti chiave, le ‘lenti’ attraverso cui Lora legge, interpreta le proprie vicende personali. Quello di Causalità (contrapposto a quello di Caso), e il concetto di Destino inteso come Predestinazione.

Sono due delle quattro principali concezioni secolari del Destino: le altre due sono appunto quella del Caso ‘capriccioso’ (tutto avviene per caso), e quello del Libero arbitrio (la mia volontà incide sul mio destino). 

Lora intende chiaramente le avversità come un effetto della propria colpa, ossia quella di aver abbandonato il proprio figlio. Da tale colpa originaria scaturisce – Lora è convinta di questo – secondo il volere di una generica Entità superiore, un susseguirsi di eventi a lei sfavorevoli. Non c’è nulla di casuale, di capriccioso, ma tutto ha una sua precisa e rigorosa motivazione.

A proposito di questi patimenti che colpiscono Lora, e che evocano nel lettore un senso di sovrannaturale tristezza, rimando alla lettura di Antropologia del dolore, di David Le Breton (1995), studio che, sebbene metta al centro il dolore fisico e non tanto quello dell’anima, è comunque un importante sussidio alla comprensione delle molteplici concezioni del soffrire nel corso dei secoli.

Al contempo, un altro dei motivi conduttori presenti nel romanzo è per l’appunto la concezione della vita (e del Destino) come un libro già scritto. La vita viene vista come un voltar pagine giorno dopo giorno di un libro il cui finale è già stato scritto, che non si va pertanto componendo nel presente (non è una scrittura in fieri, ‘plasmabile’ esoggetta a condizionamenti). Tale immagine del Destino collegato alla scrittura è presente in credenze antichissime come ci ricorda Aldo Magris nel suo fondamentale Destino, provvidenza e predestinazione (2008), al quale senz’altro rimando per un ampio approfondimento, per chi volesse, sulla visione del Destino nel corso della storia. Magris fa riferimento ad esempio al dio scriba T_hoth (egiziano ma di ascendenza mesopotamica), o alle Gulse di origine ittita (il verbo guls rimanda al concetto di incidere su tavolette). Le Moire stesse (che in Wagner, lo ricordo, compaiono come Norne), vengono di consuetudine rappresentate con un rotolo dove loro e soltanto loro possono scrivere. Del resto, l’origine etimologica del termine Fatum “ciò che fu detto” rimanda all’idea di qualcosa “già scritto”.

Tale prospettiva implica che il libero arbitrio, la scelta individuale, abbia solo la parvenza di incidere un tratto significativo, di condizionare in qualche modo l’evolversi del Destino. Non è un caso se ad un certo punto si legge di Lora: “Si ritrovò a guardare i flutti delle onde sbattere imperterrite contro gli scogli. Per un istante si sentì come una di esse: un’onda che passa la propria vita a sbattere contro il proprio destino”.

Come pure significative sono le riflessioni che alla protagonista viene spontaneo fare sulla differenza tra il proprio atteggiamento nei confronti della vita, e quello di sua sorella Najira, altra figura emblematica nella storia che lascio al lettore il piacere di scoprire. 

Ma Lora non riesce ad essere fatalista, o perlomeno non può esserlo fino in fondo, dal momento che l’Inesorabile nasconde malignamente il proprio volto, illuminando di volta in volta di speranza (ad ogni ostacolo superato) il volto di Lora.

La ricerca del figlio è ciò che la tiene in vita, è l’unico elemento rimastole a dar senso alla propria vita, l’unica vera, reale ambizione.

Sono la Volontà schopenhaueriana (o Eros, la Pulsione di vita freudiana) e l’Amore e l’Istinto materni a farle affrontare le prove più terribili, fino all’abnegazione di se stessa, in una degradante discesa progressiva verso gli inferi (o in un passaggio da un inferno ad un altro inferno, a seconda dei punti di vista), come capita a tantissimi immigrati d’oggi. Tale amore e tale istinto sono una forza ancestrale più forte della forza che tiene ancorati tra loro i pianeti nelle galassie.

Ma di fronte a tanta tenacia, il Destino si mostrerà pienamente beffardo. Il finale della vicenda (che non voglio espressamente anticipare) non potrà non ricordare al lettore la storia di Edipo, così come ci viene raccontata nelle tragedie antiche, in primis da Sofocle. Come ricorda Jean Delumeau nel suo Il peccato e la paura (1983), nell’Edipo a Colono Edipo dice: “…dei miei atti…sono la vittima più che l’autore responsabile….Come potrei essere un criminale consapevole? Sono stato colpito, ho risposto…Ma sono giunto a tanto senza sapere, mentre loro (gli Dei) avevano premeditato la mia morte”.

Un finale dove, dopo tanto patire (e quindi dopo tanta paura e compassione da parte del lettore…phobos ed eleos sono i termini che adopera Aristotele), la catarsi si confonde con la trasfigurazione (da qui, il senso del titolo).

In almeno un punto Lora si domanda se questa odissea abbia un senso, e se non sia piuttosto meglio lasciare al figlio (orami divenuto adulto) la propria libertà (anche qui, un cenno al fatalismo).

Teme inoltre che l’agognato incontro, a così tale distanza di tempo, possa anche non suscitare, nel figlio, la stessa reazione di felicità che sicuramente si potrebbe generare in lei. “Per un istante le balenò in mente l’idea di rinunciare, di lasciargli la vita che si era creato senza stravolgerla. Poi pensò…E se lui avesse saputo, e se anche lui sentisse il vuoto che lei stessa aveva lasciato?”. Questi scrupoli, questa ipotesi di rinuncia, questo esame di coscienza sono intimamente preziosi per comprendere ancor meglio l’animo sensibilissimo di Lora.

Come scrivevo all’inizio, svariati sono i ‘motivi conduttori’ caratterizzanti il romanzo di Marco Posata. Già alcuni importanti ne ho citati. Ne ricordo en passant altri: quello del Ricordo (lo sguardo della protagonista è costantemente rivolto al passato); della Cupidigia (la cieca brama di denaro che, esattamente come in Wagner, rischia sempre di portare morte e distruzione); dell’Ambiguità tra Bene e Male (ambiguità inverata ad esempio nella figura del personaggio di Antonio); dell’Immedesimazione-identificazione-proiezione (nel corso della sua odissea capita più volte a Lora di imbattersi in figure di madri e di figli, o di figli orfani, che inevitabilmente le fanno da ‘specchio’ doloroso, e le ricordano il suo, forse perduto per sempre); della Morte (la protagonista più volte pensa al suicidio…le bare dopo il naufragio dei migranti…etc. etc.).  

Una vicenda pensata in un’epoca storica, quella che stiamo vivendo, dove il dibattito sui migranti in Italia è accesissimo. Un dibattito carico di implicazioni e di contraddizioni, dove ognuno di noi in fondo proietta un proprio personale vissuto, in base agli indottrinamenti o alle esperienze di vita.

All’inizio ho sottolineato l’odore di tragedia classica presente in questo romanzo. Certo va pure menzionato il carattere pienamente avvincente da action movie che pervade una buona parte della narrazione (abilissimo Posata a non slittare nel banale nelle scene più ‘movimentate’). Ma non basta: sicuramente la fantasia, l’esotismo, il carattere poetico di molte immagini, certe ambientazioni e la caratterizzazione dei personaggi, a taluni fra i lettori potranno far pensare pure ad una lunga fiaba in abiti da romanzo. Una fiaba moderna, che non mancherà di dividere il pubblico dei lettori. Da un lato gli “empatizzanti” con la protagonista, che, a lettura del libro terminata, finiranno per vedere nel volto di ogni nuovo immigrato che incontreranno sulla loro strada una (nuova, potenziale) Lora o un suo potenziale figlio. Dall’altro lato ci saranno quei lettori (diciamo, per così dire, più ‘cinici e smaliziati’), che vedranno nel romanzo un’idealizzazione o un ‘addolcimento’ della ben più cruda realtà attuale e contingente. Del resto, anche lo spirito materno ha subìto negli ultimi tempi un forte ridimensionamento, come pure la concezione di “sacrificio”.

Al di là di queste due prospettive antitetiche, l’amore con cui viene ‘vissuta’ – il lettore avvertirà certamente quanto sia ‘sentito’ questo personaggio – da Marco Posata la figura affascinante e carismatica di Lora, è qualcosa che travalica e trascende le comunque inevitabili e significative letture ‘politiche’ della vicenda. L’odissea di Lora ha sicuramente un valore più ‘universale’, e pertanto va intesa come collocata ad un livello ‘altro’.

In conclusione, per il lettore interessato, segnalo anche un’altra storia che, analogamente a quella ideata da Marco Posata, mette il focus sulla ricerca da parte di una madre del proprio figlio: Non troverai altro luogo, di Marilia Mazzeo (L’Iguana, 2017). Sebbene le due vicende gravitino in galassie ben differenti (e ci si sorprenderebbe del contrario), è comunque a mio avviso un’operazione interessante accostarle e porle in dialogo. Starà al lettore confrontarsi coi personaggi delle rispettive storie, e, vivendoli su di sé, potrà scoprire se sussiste, magari, una sorta di ‘continuità’ tra se stesso e alcuni di loro (quasi che tali personaggi siano fatti della sua stessa sostanza). Tra eroi ed antieroi, ‘specchi’ che ci permettono riflessioni (nel duplice senso), o exempla da emulare, o figure – perché no? – che verrà magari spontaneo biasmiare, il lettore potrà proiettare proprie suggestioni personali sul tema della madre che decide di mettersi alla ricerca del figlio perduto (che è anche un po’, mutatis mutandis, tentativo, forse vano, di un recupero del Passato), sul Materno, sull’essere figlio, sull’amore, sulla paura della perdita, ma anche sul risentimento e sull’odio.  

La lettura di siffatti romanzi così pregevoli, dotati di grande originalità, pregni di realistiche ed umanissime emozioni, ci fa intravedere una volta di più come un discorso sulla Madre e sul Figlio (e sui rapporti che possono intercorrere tra di loro) non cesserà mai di essere pronunciato.  

Luca Mantovanelli

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