Il traditore (2019) di Marco Bellocchio

Regia: Marco Bellocchio

Titolo: Il traditore

Sceneggiatura: Marco Bellocchio, Ludovica Rampoldi, Francesco Piccolo, Valia Santella

Anno di uscita: 2019

Interpreti principali: Pierfrancesco Favino, Maria Fernanda Candido, Marilina Marino, Fabrizio Ferracane, Luigi Lo Cascio

Musiche: Nicola Piovani

Nazionalità: Italia, Francia, Brasile, Germania

Durata: 148 min.


Dopo Bella addormentata (2012), Sangue del mio sangue (2015), Fai bei sogni (2016) e alcuni cortometraggi, Marco Bellocchio, ne Il traditore (unico film italiano in concorso a Cannes quest’anno), affronta la scomoda figura di Tommaso Buscetta (Palermo, 1929 – New York, 2000), in particolar modo incentrando il focus sulla fase in cui da membro di Casa nostra è divenuto collaboratore di giustizia.

Già attraverso la conoscenza di tanti altri suoi lavori (Buongiorno, notte, e Bella addormentata per citarne solo due) siamo stati ben abituati a vedere in Bellocchio un regista controcorrente, oppure più genericamente un regista ‘contro’. Contro il perbenismo, contro il qualunquismo, contro il pensiero ‘da pecoroni’. Ma non solo. Siamo oramai abituati a considerarlo come un regista che sfida il Bene a favore del Male, o il Male a favore del Bene, a seconda del nostro personale punto di vista, a seconda del nostro background sociale, politico, religioso, culturale e soprattutto a seconda delle nostre personali esperienze di vita.

Visto da una certa prospettiva, è un regista dalle idee opinabili, scandaloso, blasfemo. Visto dalla prospettiva opposta, è un regista capace di comprendere le persone, capace di dare un volto umano a persone che altrimenti non verrebbero ritenute degne di essere considerate, all’insegna di un loro riscatto.

La mia idea, è che per comprenderlo in modo profondo, sia necessario porsi ad un livello più elevato di queste prospettive. Ho compreso nel tempo che ciò che conta veramente è capire il valore artistico di Bellocchio, al di là del suo modo di porsi nei confronti di precisi fatti della storia o su precise tematiche che ha voluto trattare.

E’ evidente che ognuno di noi ha un suo lato ‘dark’, che lo si voglia o no, più o meno soffocato dentro di noi.

I film di Bellocchio sono spesso un’esaltazione di questo lato dark, che però dai diretti interessati non viene riconosciuto come tale. O magari sì, viene riconosciuto da loro stessi come dark side.

Tale suo caratteristico mettere in discussione l’ovvio (spesso commisto al conformismo), e l’innalzare su un più elevato livello, quello simbolico-artistico (con aperture anche verso il surreale e l’onirico), il piano della cronaca storica – anche questo è un suo tratto distintivo molto importante – inevitabilmente offrono delle possibilità di lettura molto varie, a tal punto che talvolta gli elogi provengono da ‘scranni’ (insomma da persone con background politici, sociali e culturali) molto differenziati.

Ma certamente, si tratta soprattutto di un regista che divide. Oltretutto, va considerato pure il fatto che anche sul piano generazionale si possono creare quasi inevitabilmente delle diversificazioni: chi ha vissuto da giovane o da adulto certi fatti della storia, non può avere le stesse reazioni che può avere uno spettatore della mia età o più giovane.

Non voglio qui pertanto esprimere giudizi sul modo in cui Bellocchio parla in questo suo lavoro di Buscetta. Desidero piuttosto mettere in chiaro per lo spettatore che si appresta a vedere Il traditore, che in generale non si tratta di una ricostruzione fedele alla storia, e proprio da questo presupposto si deve partire per considerare questo film. Lo spettatore dovrebbe piuttosto arrivarne a cogliere, appunto, la dimensione simbolico-artistica, e abbandonarsi al ritmo (sempre molto sostenuto) della vicenda.

Tale dimensione simbolico – artistica sembra quasi appositamente rappresentata dal volto di Fausto Russo Alesi, che nel film incarna il ruolo di Giovanni Falcone. Il volto di Falcone viene qui ‘artisticizzato’, si potrebbe dire, se non proprio deformato. Più una maschera che un volto. Se è vero che qui l’Estraniante prende chiaramente il posto della Realtà, così anche tutto il film va letto alla luce di quella maschera.

A proposito di maschere, come lo stesso Favino ha rilevato in un’intervista, il padre di Buscetta era un mastro vetraio. L’infanzia tra vetri e specchi; e poi, nel corso della vita, sappiamo come Buscetta si sia sottoposto a diversi interventi di chirurgia plastica del volto per ragioni facilmente intuibili. Favino ha inevitabilmente rinvenuto in questo dato biografico di Buscetta, la ‘canonica’ connessione tra la sua professione di attore, lo specchio e la maschera. 

Il ritmo della narrazione, la bravura di Favino, e la sapiente regìa di Bellocchio, sono a mio giudizio i veri punti di forza del film.   

Il ritmo tiene perennemente accesa l’attenzione dello spettatore, sebbene si tratti di un film abbastanza lungo. Bellocchio sa creare una sorta di flusso di parole, di azioni, di immagini molto calibrato, a suo modo, senza mai momenti particolarmente ‘deboli’ o ‘prolissi’. Le sparatorie forse rappresentano il lato meno ‘intenso’ del film, ma appositamente. Non si tratta infatti di un film incentrato banalmente sull’azione e sulla crudezza (purtroppo) scontata di certe immagini. Rimarrebbe deluso lo spettatore che in questo film sulla mafia e su Cosa nostra cercasse di ricevere solo quel tipo di sensazioni. Bellocchio intelligentemente non si sofferma su quel tipo di effetti più triti, ma ne ricerca altri, più inconsueti (anche sul piano strettamente psicologico), non per questo meno capaci di scolpirsi nell’animo. La scena, resa in modo davvero traumatico per lo spettatore, della morte di Falcone, ne è un palese esempio. Il regista impiega spesso quella tecnica che io definisco “dei colpi muti”: parlo di quelle situazioni-azioni estremamente rapide, degli scatti imprevisti perturbanti, quasi (la rapidità contribuisce ad accrescere la tensione) dove si va a risvegliare, complice anche l’impiego sapiente delle musiche, la paura dello spettatore. Per “colpi” non intendo “colpi” tra personaggi, ma genericamente momenti dirompenti, a volte con qualche sfumatura onirica, dove si percuote l’animo dello spettatore.

Da questo punto di vista, penso che Bellocchio avrebbe in nuce tutte le qualità per sperimentare anche il genere horror, se non apparisse come un azzardo dirlo.

Pierfrancesco Favino (classe 1969), noto attore tra l’altro per aver recitato in film quali L’ultimo bacio, El Alamein, Saturno contro, solo per citarne alcuni (ma memorabile è stata anche la mini serie per la televisione L’intramontabile, dedicata a Gino Bartali), col suo volto che sappiamo non avere nulla a che fare con quello di Tommaso Buscetta, e con certe rigidezze facilmente avvertibili, non convince pienamente in questo ruolo fin da subito, a mio modo di vedere. Specie quando si avverte che ‘cerca’ di fare Buscetta. Bisogna dargli tempo e via via la sua interpretazione acquista forza, si amalgama sempre di più all’atmosfera della vicenda, fino a raggiungere una scioltezza ed una intensità molto convincenti. E’ comunque indubitabile come il registro drammatico gli si confaccia al pari di quello più scanzonato e umoristico impiegato in altre occasioni, per cui si tratta di un attore certamente molto completo. Sensibilità, intelligenza e una certa empatia lo aiutano a raggiungere un buon livello attoriale in questo film.

Per quanto riguarda la regìa, probabilmente le scene meno riuscite, a parte quelle iniziali dove si ‘descrive’ e si ostenta anche un po’ il volto di Buscetta, sono quelle dei confronti in tribunale (l’ambientazione è proprio quella del tribunale di Palermo, un tribunale che ha fatto la storia dell’Italia) tra Buscetta e altri personaggi malavitosi, la cui vita si è per un motivo o per un altro intrecciata con la sua. Scene cioè più ‘descrittive’, forse un po’ troppo lunghe, in cui si rimarca una volta di più l’odio attirato da Buscetta nei suoi confronti, nel momento in cui ha deciso di diventare collaboratore di giustizia.

Una caratteristica saliente (che io vedo anche come “pregio”) dei film di Bellocchio, è quello dell’autocitazione. Ricorrono spesso temi e attori in più film distinti. Lo spettatore di un film di Bellocchio sa che, per quanto originale e mutevole sia il suo regista, ci saranno pur sempre delle costanti, degli elementi ricorrenti che contraddistinguono il suo autore. Ci si sente sempre un po’ ‘a casa’ quando si guardano i suoi film. Si sa che si riceveranno delle ‘strizzate d’occhio’ da parte del regista (“Voi questo o quello lo avete già visto, se conoscete i miei film precedenti”, pare dire Bellocchio allo spettatore). Un esempio può essere rintracciato nel gusto per il chiaroscuro di derivazione tipicamente melodrammatica: la scena del ballo iniziale del film non può non ricordare la Traviata verdiana. Bellocchio nei suoi lavori mette spesso il melodramma (che è poi alla fin fine simbolo di tradizione italiana, di ‘radici’).

Un altro esempio emblematico di tema ricorrente è la figura del figlio Piergiorgio, che compare in quasi i tutti i suoi film. Attore molto bravo, penetrante, spigliato, che riesce a creare sempre un’atmosfera molto intensa, anche solo con lo sguardo o con pochi gesti. E’ divenuto nel tempo quasi un Alter ego di suo padre Marco, si può dire. In lui forse si riassumono tutte le gamme espressive ricercate dal padre: dal conformismo della Legge allo spregiudicato malvivente, dal basso all’alto, dal bello al brutto, dal Bene al Male. Pergiorgio è, si può dire sempre, il tramite catalizzatore tra suo padre e il film in sé e per sé. E’ l’occhio con cui noi stessi vediamo il film, oltre che l’occhio che ci guarda. Una sorta di intermediario tra noi e il regista. Non è ‘fuso’ nella storia, ma è ‘nella’ storia, ad un livello tale per cui noi possiamo distinguerlo da tutti gli altri personaggi.

Piergiorgio è una sorta di presenza rassicurante, la ‘cifra stilistica’ di Bellocchio padre. Questo ‘tornare all’uguale’ è uno degli archetipi più noti dell’essere umano. Non un sintomo di ossessione, ma un elemento, per l’appunto, rassicurante, nel caso della filmografia di Bellocchio. E’ l’Heimlich che si raccorda con le vicende perturbanti e drammatiche (Unheimlich).  

In conclusione, Il traditore, pur non raggiungendo probabilmente le vette di altri film del regista, riesce comunque a non scadere mai veramente nell’ ‘effettismo’, o nello scontato (due trappole a cui la tematica del film avrebbe facilmente portato un altro regista), e ad imprimersi nell’animo dello spettatore, di qualsiasi età.

Le musiche di Nicola Piovani (da me per la verità non sempre apprezzato), riescono a fondersi meravigliosamente con il clima teso dell’intera vicenda e a creare suggestione.

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