Nymphomaniac (2013) di Lars von Trier

Lars von Trier

Il protagonista maschile della vicenda, Seligman, professore dalla vasta cultura e dalla ferrea morale in pensione, trova per strada, a terra, una donna ferita, di nome Joe. La soccorre, la porta con sé in casa, le dà ristoro, perfettamente ignaro di chi essa sia. La donna è la ninfomane protagonista della storia.

Dal letto racconta all’uomo con sorprendente e parossistico distacco episodi trascorsi della propria vita. La narrazione è suddivisa in capitoli, quasi si trattasse di un romanzo.

Vista la lunghezza del film (240 minuti o 330 nella versione estesa), il lavoro è stato suddiviso in due parti.

Nel film si assiste pertanto a continue incursioni dal presente al passato, dall’hic et nunc (che coincide con il presente dello spettatore) ai ricordi della protagonista.

Lei la narratrice di episodi bizzarri, a volte conturbanti, a volte drammatici, lui il ‘confessore-confidente-psicologo-amico’ che attingendo dal proprio bagaglio culturale – composto in parte di conoscenze naturalistiche, e in parte di sapienza umanistica – cerca di vedere in chiave razionale la vita ‘border’ di Joe. Le divagazioni di Seligman, per quanto lunghe e pedanti, ci fanno comprendere quanto la vita di quell’ospite inattesa sia perfettamente inscrivibile nella Natura, visto che anche la patologia mentale è inscrivibile nelle cose naturali.

Lui appare agli occhi di Joe ben presto (se non proprio fin da subito) una figura rassicurante, in quanto anche suo padre, quando lei era bimba, la aveva introdotta alla conoscenza della Natura. Non è un caso se von Trier indugia, a mo’ di flashback, sui ricordi dei dialoghi tra Joe bambina e il padre dinnanzi agli alberi e sulla scoperta delle virtù del frassino (albero wagneriano, per chi ha familiarità con la Tetralogia). 

Joe avverte dunque che c’è qualcosa di Heimlich in Seligman, e questo le permette di aprirsi a lui in modo totale, seguendo un flusso di coscienza del tutto libero, come mai prima di allora le era capitato.

Ma accanto al viso di Joe ferito (quasi un Cristo ferito) nel suo letto di ricovero (lo spettatore comprenderà perché strada facendo), il volto vecchio e gonfio di Seligman – per quanto con le parole dimostri saggezza e un’incrollabile capacità di raziocinio – tradisce che anche in lui ci sia qualche falla, che anche in lui ci sia qualcosa di malato. Con le parole Seligman dice qualcosa, ma con il soma rivela altro.

Apparirà sempre più limpido allo spettatore che il desiderio compulsivo in Joe – per quanto ai suoi albori sia vissuto come fonte di piacere e di divertimento per lei e per gli amanti che approfittano di questa sua ‘debolezza’ – nel corso della parabola della sua vita diventi poco a poco un cavallo sempre più indomabile, e la malattia sempre più invalidante e devastante (per lei e per gli altri), come ben sa chi ha avuto esperienze più o meno dirette con questa patologia.

L’elemento culturale (in antinomia o in perfetta armonizzazione con la Natura) s’invera in questo film primariamente nella musica (come spesso capita nel caso di von Trier).

Prima, attraverso il suggestivo paragone che Seligman dottamente fa tra la ninfomania e il tritono (noto anche come Diabulus in musica), una sorta di ‘anomalia’ compositiva stridente dalla forte componente simbolica, mal vista e osteggiata in tempi antichi, che poi si è ampiamente radicata nel gusto di molti compositori (e del pubblico) dell’ ‘800 e del ‘900 (fino a giungere ai nostri anni).

Successivamente, nel capitolo La piccola scuola d’organo (sicuramente uno degli episodi più potenti dell’intero film) Joe paragona tre dei suoi amanti alle tre voci di una composizione di Bach, il Corale in fa minore Ich Ruf Zu Dir, Herr Jesu Christ BWV 639, del 1713-1717, contenuto nel Das Orgel-Buchlein (Corale peraltro già impiegato nel 1972 da Tarkovskji in Solaris). Da un lato può risultare molto efficace il paragone freddamente intellettualistico tra la pluralità degli amanti e la polifonia (una voce non basta…solo unendo assieme tre voci è possibile avere l’illusione di ricavare un senso, un’ armonia, un senso di completezza e di ‘soddisfacimento’). Dall’altro lato von Trier sembra voler giungere alla parte emotiva – irrazionale dello spettatore, scegliendo un brano musicale altamente depressivo (come è spesso nel caso delle musiche di Bach), e affermando che ciò che poteva sembrare un divertimento per Joe (e per gli uomini che la frequentano), è in realtà un patire, una fonte di malinconia e di tristezza indicibili.

Anche le musiche deprimenti e dolorose del Requiem di Mozart che pervadono il capitolo in cui a Joe viene espressamente richiesto dalla terapeuta – alla quale la donna si affida per tentare di disintossicarsi – di sottrarsi a qualsiasi elemento che potrebbe anche alla lontana favorire l’insorgere del desiderio sessuale, cozzano con quell’idea di ‘pruriginoso’ e di conturbante che a livello di stereotipo ognuno di noi potrebbe collegare all’idea di ninfomania.

Ma anche nella scena dell’auto, in cui risuonano le malinconiche note di Per Elisa di Beethoven, viene ribadito lo stesso concetto.

Dell’erotismo (e in minor misura anche di quel poco di pornografico presente nel film) il regista cerca di mettere in luce il lato più ‘esistenziale’ e drammatico.

Nymphomaniac, successivo ad Antichrist (del 2009) e a Melancholia (del 2011) e precedente a La casa di Jack (2018), anche grazie all’indiscutibile bravura dei due attori protagonisti, Stellan Skarsgard e Charlotte Gainsbourg (già figure chiave di altri lavori dello stesso regista), è senz’altro annoverabile tra i migliori film di von Trier, regista secondo me a torto bistrattato e osteggiato da molti critici e da molti spettatori.  

Ma un po’ tutto il cast degli attori conferisce potenza e valore al film: dall’efficacissima Stacy Martin, impiegata per le scene di Joe ragazza, che conferisce quel ché di ‘torbido’ alla bellezza adolescenziale della ninfomane, senza per questo scadere nell’ ‘ovvio’; a Christian Slater, padre di Joe, figura chiave commovente quanto incisiva; dall’abile Shia Labeouf (Jerome), a Uma Thurman (Mrs H), fino a Willem Dafoe (L) e a vari altri. E proprio in riferimento a Melancholia, a mio giudizio vero e proprio capolavoro, mi piace pensare al ribaltamento di prospettiva che il regista compie rispetto ai mali (psicologici) o tritoni (per usare il termine musicale di prima) che affliggono o bene o male tutti gli esseri umani (chi più chi meno): non qualcosa di invisibile e di piccolo che sta dentro di noi, ma qualcosa di immenso (visibile o no) che, come il grande pianeta blu (Asthar), ci sovrasta come una divinità nemica. Così è per la patologia di Joe, una sorta di religione che la porta a compiere dei veri rituali. E’ la sua forma di spiritualità, di Credo. Questo senso di immensità lo si respirava anche in Eyes wide shut di Kubrick (1999), in fondo: cosa c’è di più vasto (e quindi di incontrollabile e di perturbante) del desiderio femminile insito nelle fantasie del personaggio di Alice Harford? Del resto un palese omaggio a quell’altro film von Trier lo offre attraverso l’impiego del Valzer n. 2 (dalla Suite per orchestra di varietà) di Dmitrij Sostakovic, musica che il capolavoro di Kubrick ha contribuito a rendere molto popolare.

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