45 seconds (2019) di Tim Robbins

45 seconds dello statunitense Tim Robbins, pur coi suoi limiti, è uno dei film più importanti presentati alla Mostra del cinema di Venezia 2019 (per la precisione, fuori concorso).

E, senza dubbio, uno dei più attenti in senso profondo all’osservazione e alla valorizzazione dell’animo umano.

Da tempo la teatroterapia (che è qualcosa di abbastanza distinto dallo psicodramma di Jacob Levy Moreno) è entrata sorprendentemente in una moltitudine di realtà ben diverse dal teatro come classicamente lo intendiamo, e tra queste, anche le carceri. Chi ha almeno un po’ di confidenza con quella che viene chiamata “propedeutica teatrale”, in 45 seconds riconoscerà fin da subito quel tipo di ‘esercizi’, che nel film vengono presentati, illustrati e svolti a ripetizione in una sequenza che praticamente copre tutto l’arco del tempo dell’opera di Robbins. Malgrado ciò, lo spettatore non avverte il film come ‘monocorde’ o ‘ripetitivo’, e questo è solo uno dei tanti meriti che è possibile riconoscere al regista. 

Tali esercizi, come spiega la parola stessa, “propedeutici”, sono basilarmente atti a condurre l’individuo da un ‘grado zero’ (l’essere umano coi suoi blocchi e resistenze, e, soprattutto, con le sue inconsapevolezze) alla creazione di lui come ‘attore’ (come ‘tramite’), e alla realizzazione di una performance; a condurlo cioè a quel livello, diciamo così, ‘compiuto’, ‘strutturato’, di teatro che chiamiamo ‘recitazione’, ‘interpretazione’, ‘allestimento’, ‘improvvisazione’, etc. Ovviamente tutto è proporzionato alla realtà carceraria.

Il titolo “45 seconds” rimanda ad uno dei tanti esercizi: ridere per 45 secondi di fila, come atto liberatorio, utile per il rilascio di endorfine.

La propedeutica teatrale è in definitiva il laboratorio attraverso cui ‘ci si fanno le ossa’ e si fa un importante lavoro di introspezione, indispensabile per affrontare testi e ruoli teatrali.

Tali esercizi sono mirati ad esempio a sviluppare l’empatia; a captare l’altro (i suoi desideri, le sue intenzioni, i suoi stati d’animo) anche senza vederlo fisicamente (sembra impossibile, ma si può giungere anche a questo); a sciogliere i blocchi emotivi e somatici; a conoscere e a dominare le proprie emozioni; e a molte altre cose ancora. Portano ad un’esplorazione continua, implacabile, inesorabile, dei propri stati emotivi, e di parti di sé mai intercettate prima.

I carcerati del film di Robbins, prigionieri veri di un carcere realmente esistente, a Calipatria – una cittadina nel margine occidentale della California – hanno per obiettivo la realizzazione di una performance legata alla Commedia dell’arte italiana, un genere volutamente molto distante dal loro background culturale. Eppure – magia del teatro! – nulla appare a loro così vicino e famigliare come l’amore provato da un Arlecchino o una cattiveria sentita da un Pantalone: di fatto sono queste, assieme a Colombina e ad altri personaggi, appartenenti alla tradizione della Commedia dell’arte o inventate di sana pianta, le figure su cui viene incentrata la performance).

Dopo sei mesi di lavoro, è la volta del contatto con un pubblico: ad assistere alla performance, saranno i parenti, gli amici, i figli, le fidanzate o le mogli.

Il film è frutto del lavoro che Tim Robbins ha fatto con i carcerati del The Actors gang, un progetto ideato da un gruppo di attori (tra cui Robbins stesso), e attuato a partire dal 1981. 

L’Actors gang da quel lontano 1981 ha realizzato molti lavori in tutto il mondo. Del 2014 è la tournee di Un sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, portata anche a Spoleto.

Ma le performance, come ben avrà capito il lettore, non sono la parte più significativa dell’intero percorso. Ciò che conta per davvero è il tragitto, personale e unico, di ciascuno.

Pare che questo ambizioso e coraggioso progetto abbia portato e continui a portare straordinari benefici in termini di miglioramento e maturazione interiori in chi ne ha preso finora parte.

Il potere catartico del teatro è del resto noto fin dai tempi di Aristotele.

Il film, nel quale tutti i partecipanti al progetto sembrano mettersi in gioco con particolare entusiasmo – il regista opta per non far mai affiorare momenti di vero cedimento o scoraggiamenti o defaillances degli attori carcerati – è soprattutto volto a sottolineare quello straniamento (quella sorta di ‘carnevale’ caotico presente in ogni situazione teatrale) che porta l’individuo dallo smarrimento interiore all’ improvviso ‘afferrare’ convinto e liberatorio ciascuno la propria identità più autentica, al di là di qualsiasi maschera dipinta sul volto.

45 seconds, di rimbalzo, può indurci una volta di più a riflettere sull’enigmatica figura dell’attore e dell’attrice (non quella specifica che si riscontra in ambito teatroterapeutico, ma in generale l’attore e l’attrice come stereotipo). Una figura in definitiva ‘intermedia’ che non appartiene in senso stretto all’irreale mondo dei personaggi in quanto non è un essere irreale, ma che non può neppure essere considerato in senso stretto un essere umano come noi, in quanto è qualcosa di ‘diverso’ da noi. Una figura intermedia ed indefinibile che (purtroppo o per fortuna) non può né riposare a casa nostra, né a casa dei personaggi che interpreta. E che quindi vive in un mondo completamente suo, privilegiato ma al tempo stesso anche aberrante, forse frustrante, per certi versi. E’ proprio la distanza tra noi e lui che lo rende attraente e affascinante ai nostri occhi (e in certi casi, irresistibile). Al contempo, lui, come tramite, ci fa il dono di avvicinare a noi i personaggi che interpreta, a farceli toccare con mano. Tutto ciò contribuisce a rendere il ‘sistema teatro’ qualcosa di magico.

La prospettiva di Tim Robbins è differente, nel suo film non si respira l’atmosfera del teatro di legno antico e dei fascinosi sipari. Non si parla dell’ attore-stereotipo, né del ‘sistema teatro’, ma viene comunque recuperato un ancestrale sentimento di ‘anima’ del teatro, probabilmente il senso più genuino e profondo del teatro. Quello che va alla ricerca della spontaneità, dell’immediatezza, dell’imperfezione, della bellezza dell’attimo.

Nelle scritte finali del film si specifica che i conduttori del lavoro attoriale dell’Actors gang appositamente non hanno voluto conoscere le cause delle condanne alla prigionia (condanne che nel caso specifico vanno dai nove anni fino all’ergastolo) delle persone con le quali hanno avuto a che fare, proprio per scongiurare qualsiasi tipo di pregiudizio, che certamente avrebbe interferito sul lavoro stesso.

A distanza di nove anni da Cesare deve morire dei fratelli Taviani (in quel caso l’ambientazione era il carcere di Rebibbia e l’opera studiata era il Giulio Cesare shakespeariano), 45 seconds è destinato ad imprimersi come potente testimonianza di cosa la natura umana sia realmente in grado di realizzare, grazie all’intelligenza e al cuore. 

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